Territori di confine
di Paolo Di Nardo
Territori di confine
Tutta la produzione disegnata di Alessandro Melis ci pone davanti ad una riflessione sul “confine” come soglia immateriale che fa dialogare gli opposti riuscendo a stabilire un nuovo senso alle parole e alle immagini: natura e artificio, presente e futuro, disegno e utopia, architettura e pensiero, inquietudine e speranza.
In fondo Giovan Battista Piranesi già ci insegna con le sue opere come il confine fra disegno e utopia sia la soglia intorno alla quale indagare, provocare, suscitare emozioni distanti e non catalogabili, soggettive e allo stesso tempo oggettive. Uno spazio immenso, quasi infinito come si confà alle soglie concettuali capaci di far viaggiare la mente al di là dell’oggetto rappresentato o delle tecniche del disegno. La scrittrice Marguerite Yourcenar, stregata dalle suggestioni di Piranesi, scova nelle dimensioni anguste delle Prigioni uno spazio infinito capace di proseguire oltre i limiti del disegno stesso per liberarsi nel sogno. Una vertigine spaventosa, generata non tanto dall’assenza di misure , ma da un moltiplicarsi di proporzioni tese in prospettiva producendo architetture forzate e non misurabili: “ci riempie di angoscia analoga a quella di un lombrico che tentasse di misurare una cattedrale” (Marguerite Yourcenar, “La mente nera di Piranesi, Lugano, Pagine d’Arte, 2016, p. 61),
E’ interessante notare l’analogia e la metafora del “lombrico” che in Melis si materializza con evidenza e stupore negli organismi primordiali che invadono, divorano gli spazi in cui si muovono e che diventano quasi estranei tanta è la forza espressiva data dall’inquietudine che creano nell’osservatore. Un messaggio, quello dell’organismo primordiale, che si moltiplica in continue suggestioni, ma soprattutto in ammonimenti sul presente e sul prossimo futuro. L’inquietudine è infatti solo un espediente che si supera da solo, ma che crea uno stato d’animo che fa virare il pensiero oltre il disegno e la tecnica con cui è rappresentato. Nei disegni di Melis infatti c’è più sogno che disegno, più pensiero che tratto, lasciando all’osservatore una libertà, tutta soggettiva, di ampliare il senso stesso del disegno in un viaggio che come in Piranesi va oltre il confine del segno, oltre il confine dello stesso foglio di carta: “un ipotetico conradiano viaggio nel Cuore di Tenebra in cui vengono attraversati territori climaticamente estremi”, come lo definisce lo stesso Melis.
Su esplicita dichiarazione dell’autore “i disegni sono la visualizzazione di potenziali scenari futuri, elaborati secondo il pensiero associativo” che in questo momento storico cominciano ad emergere proprio attraverso il “virus”, il lombrico infinitesimo, come elemento destabilizzante capace o di rimettere in dirittura i valori di una società, oppure di aprire una voragine capace di risucchiare al suo interno i valori dell’identità, dell’appartenenza, della condivisione, del rapporto fra natura e costruito. Le rappresentazioni iconografiche, come gli stati d’animo hanno lo stesso percorso messo in moto dall’inquietudine della novità per diventare novità e speranza. La contemporaneità di questi giorni, i primi mesi del 2020, che a breve diventeranno storia dell’Umanità e dei suoi modi di reagire alle difficoltà, è la barca, anzi l’arca che ci porterà dentro quell’infinito che si crea negli spazi, nei profondi interstizi lasciati fra le masse geologiche rappresentate nei disegni, in cerca di nuovi porti, nuovi concetti di natura, nuove percezioni di spazi, nuove “Geological city”.
Biotech City I – 2016
Immagini di Alessandro Melis ©
Symbiotic bodies III – 2016
Immagini di Alessandro Melis ©
In questa chiave di lettura i disegni non sono scenari apocalittici estraniati dal reale, bensì esprimono una forma inconscia di disagio che nel contemporaneo si esprime nei contrasti sociali, raziali, etnici, nella mancanza di etica ambientale diffusa nel globo. Al di là di una lettura concentrata solo sull’immagine, che non appartiene alla ricerca di Melis, le Architetture rappresentate descrivono, altresì, “i territori di confine in cui l’ibridazione sostituisce la convenzionale distinzione tra natura e artificialità ed offre opportunità di esplorare nuove forme di resilienza urbana.
Il riferimento a Piranesi, sempre arduo e pericoloso, in questo caso serve proprio per capire meglio i messaggi in filigrana nei disegni di Alessandro Melis. Maurizio Calvesi nel saggio introduttivo all’edizione italiana del testo di Henri Focillon, analizza l’opera di Piranesi previlegiando i contenuti, al di là della forma, per attribuire all’autore un pensiero organico e una teoria della Storia, veicolati attraverso le tavole delle Carceri (Calvesi, 1967, pp. V-XXII). A partire da una presunta conoscenza fra Piranesi e Giambattista Vico, Calvesi sostiene un parallelismo fra i due in merito all’idea, condivisa da entrambi, che il ricorso della Storia e il ritorno alle origini possano rappresentare l’unico rimedio all’esaurirsi di una civiltà: “Piranesi, nei suo capolavori, riconduceva sempre alla Roma dei Re, la tradizione della cultura italica, i valori morali, ma anche all’esemplarità della pena inflitta ai malfattori, costituendo insegnamento e ammonimento per tutto il popolo.” (Andreucci Caterina, And n. 31 “In bilico tra disegno e utopia”, pag. 90)
Il dato storico in questo caso non è avulso dalla fantasia, anzi la fantasia serve la Storia poiché dalla ricostruzione filologica di essa scaturiscono la deduzione morale e l’insegnamento per i contemporanei. L’inquietudine, l’angoscia che lega questi due così lontani approcci tesi in questa soglia concettuale fra disegno e utopia, più rappresentata che partecipata, è frutto di un giudizio morale che riconosce la decadenza della società contemporanea e ritiene imprescindibile un ritorno ad un precedente storico fondato sulla pace e la giustizia.
In Piranesi tutto ciò si esprime nel rapporto con il rudere, simbolo di una civiltà passata e persa, mentre in Melis la ricerca della Storia, come fonte di ammonimento, va ancora più lontano alla ricerca di forme primordiali, non solo organiche, ma soprattutto volumetriche. Ciò perché gli scenari apocalittici che si potrebbero aprire non possono che riportare al momento Zero dell’umanità in un regredire pericoloso e autodistruttivo.
La complessità di questi temi e del loro modo di suscitare pensiero non nasce ovviamente da una stagione breve e istantanea, bensì si sviluppa in Melis parallelamente alla sua appassionata ricerca dei mali del Mondo, dei suoi disastri ambientali per cercare di fermare una deriva culturale portatrice soltanto di una fine annunciata. I disegni non sono che la rappresentazione sintetica di una ricerca condotta alle estremità del mondo in quei paesi, vicini culturalmente, ma lontani geograficamente e con peculiarità ambientali totalmente diverse: La Nuova Zelanda e l’Europa.
Come dichiara lo stesso Melis in un suo articolo sulla Rivista AND n.31 dedicata al “Disegno – AND – Utopia”, i suoi disegni “fanno parte di un percorso di ricerca avviato intorno al 2010 e in gran parte concluso nel 2016, sviluppato in accordo con i programmi coordinati a Vienna, all’Università delle Arti applicate (programma “Brian City Lab”), all’Università di Aukland, in Nuova Zelanda (programma Zombiecity”) e all’Università di Portsmouth (Uk).” (AND n.31 dedicata al “Disegno – AND – Utopia”, L’analisi di scenario attraverso il disegno radicale, pp. 126-129).
Mentre la tecnica di rappresentazione è sempre la stessa, “tecniche miste, dallo schizzo a mano, a china o matita, alla pittura in acrilico, fino alla elaborazione digitale”, cambia, si evolve e si mette sempre più a fuoco la ricerca e la denuncia di mondi possibili a seconda del momento storico, ma soprattutto del luogo in cui sono stati disegnati. Credo fortemente che molta ispirazione sia stata data dalla Natura incontaminata della Nuova Zelanda nel periodo di insegnamento presso la Aukland University, dove non conta tanto l’equilibrio ambientale, l’incontaminazione degli spazi naturali, bensì la grandezza e la sua forza, la sua capacità di saper prevaricare l’uomo e la sua necessità di modificarla. La natura neozelandese ha sicuramente ispirato la mano di Alessandro Melis che ne ha saputo cogliete la forza, l’energia nascosta, come i gaiser tanto presenti nel territorio, capace di ribellarsi ad un uomo miope, vanaglorioso, inutilmente consapevole di poter gestire gli equilibri. Gli stessi organismi, naturai o artificiali non vogliono solo rappresentare l’inquietudine del “mostro” agli occhi dell’osservatore, bensì vogliono condurci a sentire e a capire quanto la Natura possa essere prorompente e vendicativa nei confronti dell’uomo in un giro di valzer metaforico che stordisce al primo approccio , ma che fa riflettere dopo il distacco dall’immagine. Sono convinto che ad Alessandro Melis interessi proprio questo momento di lontananza dal disegno, dal giudizio estetico o tecnico della rappresentazione, per accompagnare il pensiero verso momenti di silenzio alla ricerca di una radura mentale nel bosco dell’immaginazione.
Questo modo di confrontarsi con l’osservatore attraverso la capacità di quest’ultimo di estraniarsi dal disegno e di sentirsi straniero nel mondo rappresentato rimanda all’auspicio dichiarato da Massimo Canevacci , in “La città possibile” per cui il fine della ricerca, come della conoscenza sia “la capacità di volersi perdere, di godere dello smarrirsi, di accettare l’essere diventato straniero, sradicato e isolato prima di potersi ricostruire una nuova identità metropolitana”. L’osservatore dei disegni intraprende una strada di riflessione che ha gli stessi ritmi del lettore di Umberto Eco in “Sei passeggiate nei boschi narrativi” in cui costringe il lettore “in ogni momento a compiere una scelta” stabilendo “tra il lettore e l’autore un sottile colloquio alla scoperta di un tracciato narrativo che lo rassicuri e lo consoli”.
Cultivable City I – 2013
Hybrid Cities Series Surgery City – 2015
New Zeland Series Geological City IV – 2016
Urban Insect
Geological City II – 2016
Immagini di Alessandro Melis ©
Umberto Eco, come Alessandro Melis pone due alternative per “passeggiare nel bosco” o per perdersi nelle crepe dei segni lasciati dalla matita: “nel primo modo ci si muove per tentare una e molte strade (…) nel secondo modo ci si muove per capire come è fatto il bosco e perché certi sentieri siano accessibili ed altri no”.
Il percorso rappresentativo dei disegni, quindi, parte dalla ricerca, per farsi disegno e per poi, attraverso il pensiero dell’osservatore, ritornare all’origine del tutto, bosco o città.
In questo percorso di analisi e conoscenza dei disegni di Melis ci si può facilmente perdere colti da infiniti aspetti, come ho cercato di evidenziare fino ad adesso, ma tutto ciò è anche possibile perché esiste un mezzo democratico che lascia libero l’osservatore e quindi il lettore di interpretarlo: il monocolore del bianco e nero o del color seppia.
Come i pittori ottocenteschi posavano sui colori accesi delle loro tele la cosiddetta “velatura”, fatta d’acqua sporca o di miscele di grigi, per uniformare la scena rappresentata e per non distogliere l’osservatore dall’insieme, anche la mano di Melis adotta lo stesso stratagemma comunicativo, evitando di forzare il messaggio con i colori. Una tecnica di comunicazione adottata negli anni Novanta nel video clip “History repeating” della cantante jazz Shirley Bassey e della band Propellersheads, scritto da Alex Gifford che cerca di comunicare il contrasto sonoro fra la storia del jazz interpretata dalla Bassey e il ritmo della musica Big Beat e breakbeat dei Propellersheads: generi musicali distanti fra loro che si sovrappongono in nuove sonorità, ma rigorosamente in bianco e nero e non a colori.
L’astuzia del regista, per poter comunicare questa continuità creativa, risiede proprio nel non far notare, a chi guarda il video, le differenze fra gli elementi tradizionali (Bassey, gli operatori video e il suo pubblico ) e le novità (i due componenti della band anni ’90) componendo il video in bianco e nero e non a colori apponendo una velatura grigia (il bianco/nero) capace di non far emergere le differenze, per poter cogliere la continuità della narrazione ed il messaggio finale. Tutto ciò a dimostrazione che è la comunicazione, al di là di ciò che si rappresenta, in pittura, nel disegno, nei video, che ha la parte di maggior rilevanza nel far emergere i pensieri capaci così di muoversi così più liberamente nei “territori di confine”.
Geocity II – 2015
Immagini di Alessandro Melis ©
in breve
ALESSANDRO MELIS – bio
Alessandro Melis è Full Professor of Architecture Innovation (UK) alla University of Portsmouth, Direttore del Cluster for Sustainable Cities e direttore di Heliopolis 21 architetti associati.
È curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2021 (Resilient Communities) e ambasciatore del Design Italiano (ADI).
Precedentemente, Alessandro è stato Head of Technology e Director of the Postgraduate engagement presso la School of Architecture and Planning della University of Auckland.
in breve
PAOLO DI NARDO – bio
Paolo Di Nardo è direttore editoriale di AND, rivista di architetture, città e architetti. È co-curatore del Padiglione Italia e portavoce della cultura della resilienza. Paolo coordina un team di lavoro che da oltre quindici anni partecipa a numerosi concorsi di architettura in Italia e all’estero ottenendo importanti riconoscimenti e premi.